Come medico e come uomo non ho dubbi.

In Il Pensiero

Ci devono certamente essere specialità mediche che coinvolgono meno dal punto di vista emotivo! Anche chi ha dietro di sé molti anni di attività cardiochirurgica, spesso assai impegnativa, ed ha conosciuto successi e talora, purtroppo insuccessi; ed ha visto da vicino la morte impadronirsi di un suo malato, non può non essere partecipe dell’attesa angosciosa di chi sente la vita spegnersi dentro di sé, in attesa di un trapianto di cuore. Di chi, incredibile ma umano, attende che un’altra persona, certamente cara a molti, muoia perché il suo cuore possa essergli donato, da parenti che capiscano l’ importanza di un tale dono. Importante, oltre, che agli effetti di salvare un’altra vita, anche e soprattutto perché è espressione di grande carità e solidarietà umana. È segno di coscienza civile, di chi si rende conto che pur nella sciagura e nel dolore per la morte di un giovane familiare, un’altra vita, al termine per malattia, non altrimenti curabile, può essere prolungata e restituita ad un futuro. E ciò consentendo che i suoi organi, altrimenti destinati alla dissoluzione, vivano ancora, donati e trapiantati in altre persone. Non credo vi sia migliore espressione per questo atto che è un dono di vita. Non tutti vi acconsentono, e questo è certamente capibile, anche se non sempre comprensibile. La richiesta che il rianimatore, che fino ad allora ha tutto tentato, fa ai parenti con non poca emozione, è drammatica: mentre li rende partecipi della morte del figlio, o padre, o moglie, o marito, per l’ irreversibilità del danno al cervello, chiede anche a loro di superare questo immane dolore e di pensare per un momento agli altri, alle migliaia di altri ammalati che hanno disperato bisogno di un trapianto, del dono di un organo. Questo atto di carità, che molti in tutto il mondo hanno fatto e altri ogni giorno fanno, non è sempre compreso. C’ è chi mi ha detto di essere stato criticato per la sua donazione, di aver a volte pensato che forse si sarebbe potuto fare ancora qualcosa per il proprio caro, di aver dubitato della reale efficacia dei trapianti, ecc. La richiesta di donazione, ed il prelievo, avvengono solo quando sia stato dimostrato in modo inequivocabile l’ irreversibilità della morte cerebrale, ed in ciò la legge italiana è rigorosa. Questo dovrebbe rassicurare i parenti, ma ancor più essi dovrebbero rendersi conto che oggi i trapianti in genere, e quello di cuore in particolare, rappresentano una forma di terapia efficace e duratura, radicale e quindi proponibile solo a malati non altrimenti curabili, ma con risultati oggi certamente buoni. Dopo cinque anni dal trapianto di cuore, oltre il 72% dei pazienti è vivo e questo è indubbiamente un risultato soddisfacente se si considera che il 100% dei candidati a tale intervento muore entro nove mesi, in media, se non operato. La vita del trapiantato è, sotto ogni aspetto, normale, se si escludono controlli medici sempre meno ravvicinati, ed una certa cautela verso le malattie infettive: essi possono avere una vita familiare e di relazione come gli altri e possono tornare al lavoro. Valeva la pena di iniziare questa attività? Di caricare se stessi e tutti i collaboratori di tanto lavoro in più? Di chiedere, protestare, imprecare per ottenere permessi ed aiuti? Di soffrire con chi muore in attesa di trapianto, di gioire con chi si sveglia dall’anestesia, rinato e fortunato di essere fra i pochi che hanno ottenuto tale dono? Come medico e come uomo non ho dubbi.